L’ho imparata l’altro giorno in ospedale.

Dopo una trafila nel mio ambulatorio di riferimento, il medico di turno decide di mandarmi all’ospedale pubblico.

“Può andare con qualcuno?” “In che senso?” “Un familiare che l’accompagni!” “No, la mia famiglia vive in Italia” “Potrei mandarla in ambulanza”.

In quel preciso istante ho pensato a me dentro l’ambulanza. Con l’ombrello (pioveva a dirotto) più grande del mio busto, il tupperware del pranzo che tintinnava ad ogni minimo movimento, le espadrillas con la zeppa che sapevo non avrei dovuto indossare.

Soprattutto ho pensato a come avrei giustificato la mia presenza lì al personale che mi avrebbe accompagnato. “Ho solo un mal di stomaco, scusate, non so perché vi abbiano chiamato. È stato il medico che mi ha visitato“.

Sono andata in taxi fino all’ospedale del Sacro Cuore. “Sagrat Cor”, che bel nome possiedi, ho detto ai miei pensieri. Mi hanno dato un braccialetto con un codice che ricordo ancora, era il W3QU. Mentre attendevo che sulla schermata apparisse il mio numero della fortuna, la ragazza a circa otto posti da me, incarnato pallido e capelli corvini di cui sono riuscita a vedere la fine solo quando si è alzata, mi ha chiesto cosa avessi e se stessi bene. Stavo spiegando quando è suonato con un trillo terrificante il suo codice. È scattata in piedi e se n’è andata -scusandosi- verso la stanza del medico che le era stata assegnata.

Due ragazzi con il braccio rotto e un’ora di attesa dopo dopo, esco dalla sala del tabellone per chiamare mia madre. Il cellulare non prendeva così sono uscita fuori, nella zona di arrivo ambulanze. Con il cellulare all’orecchio sento pronunciare, improvvisamente e come un corpo estraneo, il mio nome nell’autoparlante dell’ospedale. “Laura Cabalgante con codice… è attesa nella sala 12“.

Eccoci qui, l’ho fatta grossa, ora non mi accettano, mi rifiutano per negligenza ritardataria. Come quando l’autista dell’autobus mi chiude le porte in faccia perché arrivo sessantanove secondi più tardi dell’orario di partenza previsto.

Ho atteso le analisi (tutto perfetto, sto benissimo!) in una sala grigia con le poltrone blu. Eravamo io, la nuova infermiera e un ragazzo che avrà avuto la mia età. Lui dormiva e un po’ si svegliava, non aveva una bella cera, l’infermiera mi chiamava tesoro, mi diceva che per le mie vene trasparenti servivano degli aghi minuscoli.

Ad un certo punto mi ha passato una mano sulla testa, accarezzandomela. Ferma lì in quella stanza avrebbe potuto essere Dicembre o Marzo, il 2021 o il 2027, sarei potuta chiamarmi con tutti i nomi del mondo, avrei potuto avere la vita più piena delle sette miliardi che ci sono là fuori. Eppure. Una carezza sulla testa mi rendeva così vulnerabile.

A quattro giorni di distanza la vulnerabilità si è trasformata in solidarietà, in persone che ogni tanto ti tendono una mano.

Esistono quelli che ti chiudono le porte in faccia se arrivi con un minuto di ritardo, che ti spintonano tra il marciapiede e la pista ciclabile, che non si girano a chiederti scusa, ma esistono anche le cure e le attenzioni, i dettagli che ti sanno avvolgere. È con questa consapevolezza che probabilmente possiamo affrontare tutte le facce dei nostri giorni. Tra gli spintoni e le cure, tra la polvere e le ricostruzioni, in questo equilibrio comprensibile sta la (mia) vita.

Un sorriso,

L.

Pubblicato da lauracavalcante

Laura, 28 anni, siciliana. Una vita come altre sette miliardi, normale, metropolitana, expat. Vivo nella Barcellona spagnola da quattro anni, dove mi occupo di Marketing in una multinazionale di moda. Pratico yoga, leggo, provo a cucinare. Qualche volta poi faccio cose "diverse": scrivere, fotografare, viaggiare, amare luoghi. Affezionarmici. "Caro diario" è per raccontarmi. È per me stessa e con la libertà più assoluta, anche per voi.

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